3/3 – Immaginario dell’abitare
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TORNARE, PARTIRE, RESTARE

Ritorno a Ussita a fine maggio, e non vedevo l’ora. Ho lasciato un paesaggio invernale, che mi aveva affascinato ma anche “scottato”, facendomi sentire tutta la difficoltà dell’adattamento. Ora a circondarmi è l’esplosione debordante della natura, che si prende tutta la scena. Germogliano le strade e i sentieri, le siepi e i boschi risplendono di colori che non ricordavo di aver mai visto, la valle inspira ed espira in un movimento unico, con cui entro in sintonia, da cui mi faccio trascinare. Lunghe passeggiate in silenzio, non smetto di guardarmi intorno estasiato, non smetto di respirare e di pensare: “Finalmente, sono nel posto giusto!”. Con i nervi e i sensi provati dopo settimane di isolamento urbano, con la costante sensazione di reclusione, a progettare una fuga impossibile. Finalmente sono nel posto giusto, al momento giusto. Non posso che esplodere anche io seguendo tutto ciò che mi circonda e, finalmente, “comincia adesso”.

A confermarmelo c’è la grandezza di Monte Bove, che attira l’energia e poi la restituisce a tutta la valle. Monte Bove (senza “il” davanti: Monte Bove è lui, non c’è bisogno del pronome) è il nostro totem in senso spaziale, perché è visibile da ogni punto della valle e la rende un qualcosa di unico al mondo, irripetibile, perfettamente in armonia con un’ideale di bellezza classico del paesaggio montano. La grandezza fisica di questo totem ti sorprende ma non ti sovrasta, piuttosto ti accoglie, ti guida. Se per un po’ lo perdi di vista, poi lo ritrovi dietro un albero o un’altura che te lo nascondeva. Monte Bove non è solo un totem, è anche un’entità all’interno di una accezione olistica, si potrebbe dire animistica, che attribuisce soggettività agli animali, alla natura e agli oggetti. In questo senso prende e restituisce energia a tutta la valle. Sistole e diastole. Inspira e respira. Protezione e Interdipendenza. “Diverso il suo rilievo” ogni volta che lo accarezzi con lo sguardo. Lo ritrovi e sempre ti fa qualcosa, ti fa scattare qualcosa dentro, che forse è anche ingiusto costringere in delle parole. Monte Bove è questo e molto altro per gli ussitani, appunto molto altro che si può “spiegare” solo in parte – vivendolo lo si può sentire, e forse comprendere.

Tra marzo e aprile, confrontandomi anche con altri colleghi impegnati in ricerche sul campo, il pessimismo era dilagante. Anche ammesso che riusciremo a tornare sul campo, riusciremo poi a intervistare, conoscere e relazionarci alle persone? Questo pensiero mi accompagna tornando a Ussita, ma dopo pochi giorni è un vago ricordo, il vago ricordo di un periodo in cui si annaspa in supposizioni senza fondamento (e sta avvenendo di nuovo in questa primavera 2021. Insomma, contrariamente alle aspettative trovo una grande disponibilità delle persone a parlare, a trascorrere del tempo insieme, addirittura (cosa assurda solo un mese fa) a invitarmi a casa. Incontro sorrisi e voglia di contatto umano, di vicinanza, e questo oltreché a essere un segnale positivo per il mio percorso di ricerca, mi fa bene.

Con gli ussitani ci annusiamo, ci conosciamo.
Inizio ad assaporare la vita di un paese.
Gli sguardi. La visibilità. Essere uno, con un nome, una storia, delle abitudini e delle storie da raccontare, ogni giorno. A chi ti circonda importa come stai, il tuo umore può influenzare quello di chi incontri, la tua energia può essere contagiosa, la tua tristezza anche. Questo accade molto più velocemente e più intensamente che in un contesto urbano, dove sei uno tra i tanti. Non che anche in città non si possa avere una propria rete “paesana”, una propria geometria personale che permette di sentirsi a casa ovunque si vada, ma qui sei chiamato, sei convocato e tocca (anche) a te. Parlare, prendere parola anche con i gesti, in una maniera quasi ineludibile: anche il silenzio dice tanto.

Inizia un periodo in cui mi butto a capofitto nelle interviste, perché già mi sento in ritardo. Prendo contatti continuamente e, ogni volta che riesco a fissare un appuntamento, è un passo in avanti nella direzione giusta. Come avviene sempre in questi casi, comunque, al pari delle risposte contano i tempi morti, i silenzi, il linguaggio del corpo, il non detto. Spesso infatti i dettagli, le cose al margine, assumono improvvisamente centralità e si prendono la scena, in quanto elementi che sintetizzano, elementi che nella loro semplice concretezza diventano metafore efficaci e condensano pagine e pagine, ore e ore di discorsi. È anche qui che ritrova validità la scelta di stare qui, di darsi tempo e lasciare che l’organismo possa incorporare un certo modo di fare, un certo modo di guardare l’ambiente circostante, un certo modo di fare territorio e, circoscrivendo, di abitare.

Tutto il resto è storia recente, e chi c’era sa.

Da fine settembre inizio a vivermi molto di più anche la socialità, che fino a quel momento avevo un po’ lasciato in secondo piano. Un po’ perché ero molto concentrato sulla ricerca, un po’ perché ho imparato (finalmente!) a stare bene da solo (grazie Pratolungo! grazie Monte Bove!), un po’ per la difficoltà a gestire, in alcuni contesti, un ruolo professionale delicato come questo. Quindi grazie a tutti quelli che mi hanno coinvolto e mi hanno spinto a mettermi in gioco di più dal punto di vista personale, a partire da Samuele e Mirco a cui mi sono accollato quella sera da Shalama.

“Ma tu chi cazzo sei?” – è Leo che arriva con un amaro del Capo per mano a farmi ricordare in un attimo quanto ci vuole poco, e quanto è bello, far saltare gli schemi.

Nello stesso periodo inizio anche a entrare di più all’interno di C.A.S.A., sia fisicamente – piazzandomi sul divano come solo io so fare -, sia collaborando attivamente con l’associazione. Il processo di crescita personale e l’esperienza a Ussita, di cui pian piano divento consapevole, fanno si che il mio contributo sia utile su diverse cose. In questo periodo facciamo un video che è un esercizio di immaginazione: come immagini Ussita tra vent’anni? La tensione desiderante che mettiamo in gioco proviene dal gruppo interno all’associazione, rappresenta quindi senz’altro una visione parziale di ciò che sarebbe desiderabile o auspicabile per il futuro del paese. La nostra è un’utopia che vuole essere di stimolo a riprendersi, concretamente e insieme, il futuro. Con un po’ di disincanto forse possiamo dire che il cuore dell’utopia è proprio il desiderio che questo processo avvenga collettivamente e, come nel video in cui si alternano le nostre voci, coralmente.

Come dice Vito Teti, non esiste un solo modo di restare, così come non esiste un solo modo di andarsene. Si può restare partendo –  come coloro che continuano a incentrare le proprie energie, le proprie speranze, investimenti emotivi sul luogo che hanno lasciato, e in questo modo non lasciandolo mai effettivamente –, ma si può anche partire restando – la capacità di restare con una disposizione sempre rinnovata e aperta, come quella di chi arriva per la prima volta, la disposizione del forestiero che osserva, che si stupisce e che è capace allo stesso tempo di apprezzare le differenze tra il restare e il partire, tra i luoghi della famigliarità e quelli della estraneità, tra ciò che succede nel globale e nel locale.

Devo lasciare casa il 10 gennaio 2021. È abbastanza difficile, ed è l’inizio pratico di un’ibridazione che era già in atto tra città-montagna. Alcuni spazio-tempi della vita montana mi calzano a pennello, in altri ci sto più stretto, mi scopro inquieto, insoddisfatto, incompleto. Ma vale lo stesso per la vita urbana.

Appena torno giù, lo stacco è palpabile. Una delle cose più evidenti, che merita di essere riportata qui, è proprio la mancanza del paese come sistema di persone che si ri-conoscono. Oltre all’anonimia di molti contesti urbani, ogni tanto la mente mi gioca degli scherzi: vedo una cinquecento blu che passa e istintivamente mi viene da salutare, perché è sicuramente Peco. Oppure il profilo di quella persona mi ricorda Maria Grazia, poi vedo Santino, o Beatrice a spasso con il cane.

Siamo degli ibridi e le nostre abitudini si strutturano nei contesti di cui facciamo esperienza, mentre trasformano quegli stessi contesti, in un gioco di rimandi continuo. Penso che abbia senso non smettere di incoraggiare tale ibridazione e i frutti che ne derivano. Oltre a tutto ciò che materialmente ho raccolto, e che freddamente dovrei chiamare “dati etnografici”, forse la cosa più utile e allo stesso tempo più bella di tutte, per me e per gli altri è stata il processo di accomodamento, di adattamento, questo divenire-ibrido. Che è anche la messa in gioco personale e politica in cui si articola, quotidianamente e nella pratica contingente, il mio posizionamento come ricercatore. Da gennaio 2020 a gennaio 2021 costruire una casa, che poi sono legami e relazioni che ti aiutano ad abitare. Nella crisi ci ritroviamo nelle abitudini, nelle persone che ti aiutano a sentirti a casa, negli spazi che diventano vissuti e dove puoi ritrovare il tuo reticolo affettivo-percettivo, da seguire come un sentiero in mezzo alla nebbia fitta.

Qui non c’è bisogno che faccio i nomi nei ringraziamenti, tanto lo sapete, chi c’era sa. Che questo grande amore che c’abbiamo dentro merita di essere tirato fuori in qualche modo.



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Immaginario dell’Abitare: Atterraggio – 1/3

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