2/3 – Immaginario dell’abitare
2/3 – Immaginario dell’abitare

2/3 – Immaginario dell’abitare

(NON ESSERCI)

Sono all’altezza di Camerino in direzione Ancona. Il giorno seguente devo andare ad Urbino per un Seminario. Una collega mi chiama per dirmi che il Seminario è annullato, non si farà, è tutto rimandato a data da destinarsi viste le disposizioni urgenti contro il Coronavirus. È la prima volta che la pandemia entra nel mio percorso.

Inizia inesorabilmente il periodo in cui non posso raggiungere fisicamente Ussita. I dubbi rincorrono l’angoscia del confinamento domiciliare, diventano ansia di non riuscire a portare a termine ciò che ho iniziato, l’ansia del “niente sarà più come prima”, la forte sensazione di assistere a trasformazioni velocissime nel contesto sociale, la difficoltà di cogliere il quadro d’insieme, di sistematizzare.

“Pronto?” – “Sì, pronto, carabinieri di Camerino?” – “Sì dica” – “Allora sì, io vi chiamo soprattutto per un consul… eh… un consiglio. Io ho casa a Ussita, in affitto, fino a novembre duemilaven… eh, ora sono ad Ancona, dove ho la residenza, da quando è scattata…” – “Sì, ma lei dove ha la residenza?” – “Ad Ancona, nella casa dei miei genitori, dove mi trovo ora. Per questo vi volevo chiedere se fosse possibile… se posso raggiungere casa ad Ussita” – “Allora, lei non deve allontanarsi dall’abitazione per nessun motivo. Lei è a casa con i suoi genitori?” – “Sì” – “E ci resti allora. Arrivederci.”

All’inizio pensavo che nel giro di due settimane sarei potuto tornare, anzi più in generale pensavo che tutto sarebbe decisamente migliorato. Un misto di ingenuo ottimismo e incapacità di comprendere la gravità della situazione. Per questo motivo, gli ultimi giorni di marzo sono quelli più difficili, dove la rabbia condensa tutti gli altri sentimenti e poi me li restituisce a fine giornata tristi e svuotati di senso, irriconoscibili. La privazione di un orizzonte che ci consente di vedere e quindi pianificare il futuro e la difficoltà nel capire che cosa stia realmente succedendo ci sbarrano continuamente la strada. Nel pensiero hai qualche strategia per evitarlo, ma il discorso è pieno di vicoli ciechi.

Il cigno nero. Come faccio a lavorare a distanza su un territorio che conosco appena? Stanze infinite: casa mia, le SAE, chiuse o con la porta aperta, la SAE di Patrizia, quella di Renato, la cucina finisce sul portico e stiamo prendendo il sole dell’ultima settimana di febbraio. Ti pensavo e ti sognavo Monte Bove, poi mi ritrovo qui davanti: mi è impossibile parlarti perché non conosco la tua lingua.

Che ne sarà del mondo dopo questo aprile 2020? A stretto contatto con centinaia di persone ma contemporaneamente isolati, leoni in gabbia dentro piccole scatole nere, le nostre dorate black box che comunicano solo attraverso parole e immagini, parole e immagini-movimento che produciamo e da cui siamo affetti (infetti). E quotidianamente, un po’ per volta, ci saturano: il pieno arriva sempre prima, stanchi senza sapere perché. Una campana di vetro ingloba i nostri orizzonti urbani: ogni tanto appare un uomo in giacca e cravatta, con una strana parlata strascicata, la voce roca, i modi istituzionali. La sua presenza eccezionale diventa ordinaria nel nostro cielo, quando lo vedi proiettato enorme sullo schermo della campana di vetro che ci ingloba. La norma è pronta ad inglobare l’eccezione: stop al panico, è almeno un decennio che non smettete neanche un secondo di lavorare e di produrre plusvalore, tranne quando dormite. Stop al panico, comincia il film: La nostra Sweet Quarantena.

“Non sappiamo quando finirà”, “nel rispetto delle misure”, “Stare a casa come segno di responsabilità collettiva”, “Dovremo convivere con il virus”, “Andrà tutto bene”, “Ce la faremo”, “Distanziamento fisico ma non isolamento sociale”, sono alcune delle parole d’ordine di una comunità in burn out, esausta, che mentre si rende conto che il mondo in lockdown fa schifo, realizza che il mondo, prima del lockdown, stava già andando a rotoli. L’autocoscienza della quarantena e i percorsi di riscoperta interiore che ognuno di noi ha condotto nei suoi abissi, oltre che a dipendere dalle singole risorse di ognuno e da condizioni contingenti (che permettono ad alcuni di restare a casa meglio di altri), rimangono una fotografia di quel periodo che può aver avuto effetti più o meno benefici su individui, famiglie e gruppi sociali. Ma in nessun modo la quarantena ha costituito quell’uscita dalla “normalità che era il problema” paventato all’inizio. Anzi, la responsabilità collettiva ha caricato gli individui di un peso eccessivo spesso non socializzato (storia delle politiche pubbliche e sanitarie come origine della maggiore vulnerabilità alla pandemia), e inevitabilmente, anche a partire da questo, nell’ordine del discorso pubblico si consolidavano le assiomatiche del capitalismo contemporaneo.

Ora che la quarantena torna ad occuparsi di noi, ciò che abbiamo vissuto un anno fa potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio: da un lato l’esperienza come consapevolezza, strumento per affrontare meglio le difficoltà; dall’altro la ciclicità degli eventi porta con sé la paura di dover affrontare il peso e la fatica (psicologica e fisica, corporea in toto) di un’altra esperienza di confinamento domiciliare.

Durante la quarantena siamo obbligati a fare i conti con la casa, con il significato che ha per noi stare in casa. Sappiamo bene che quelle quattro mura le viviamo sempre e comunque in rapporto con il fuori, con la nostra dimensione sociale, che diventa proibita perché pericolosa. Le nostre case si riempiono quindi delle nostre giornate, diventano cariche, sature di gesti e azioni a cui non erano abituate, e noi con loro. Durante la quarantena ognuno di noi ha incessantemente e necessariamente nutrito uno spazio interiore – una sorta di interno dell’interno, una privatezza scavata nel privato domestico di ognuno – attraverso forme che possono essere più o meno funzionali o disfunzionali, più o meno interiorizzanti o esteriorizzanti, più o meno individualizzanti o tendenti alla socialità, più o meno energiche o depressive, di cui aveva più o meno bisogno.

Le domande sul senso della ricerca durante la pandemia.
Cambiano i paradigmi, cambia il frame di riferimento, cambiano le priorità, cambia l’ordine del discorso e dei problemi. Che legittimità ho come ricercatore? Che funzione hanno i miei temi di ricerca all’interno dell’emergenza pandemica? Riuscirò mai a riprendere il lavoro sul campo? E, se sì, a quali condizioni? Se è impossibile non prendere in considerazione la pandemia, come considerarla all’interno dei nostri temi di ricerca? Come fare a indagare la dimensione abitativa e relazione del vivere nelle SAE se è proprio la relazione, il contatto, ad essere in sé una condizione di pericolosità? Nella pratica poi, come continuare a fare ricerca con il divieto di mobilità, mobilità che è una delle condizioni fondamentali della ricerca sul campo?

Monte Bove dreaming

Continua…
Immaginario dell’Abitare: Tornare Partire Restare – 3/3

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